mercoledì 15 gennaio 2020

Lazio, ecco il primo inno

di FRANCESCO TRONCARELLI



C'è voluta la Lazio di Maestrelli per inondare il mercato discografico di canzoni dedicate alla prima squadra della Capitale. Quella squadra che con i gol di Chinaglia conquistava tutti i campi da gioco d'Italia sino a conquistare lo Scudetto, scatenò infatti autori e artisti sollecitandoli a realizzare brani ed inni entrati poi nella storia del tifo e della musica.

Ma prima? Già, prima dell'avvento di pezzi come "forza Lazio senza mago vinceremo il campionato" di Silvestri, il primo di quella magnifica ondata o della "Società dei gran Campioni" di Camponsechi, uno dei tanti di quel periodo magico, che si cantava? O meglio c'era qualche inno? Buio assoluto.

Nelle enciclopedie o siti che si occupano di cose biancocelesti non c'è traccia alcuna. Nè tanto meno comunicatori che si occupano di Lazio e di tutto quello che le ruota attorno ne sanno o scritto qualcosa. Come se tutto fosse cominciato quindi con lo strapotere nel calcio della banda Maestrelli.

Ma non è così. E' come per il film interpretato da Giorgio Chinaglia che nessuno ricordava nè aveva visto e chi scrive ha riscoperto tra lo stupore generale con tanto di successiva menzione su Wikipedia nella pagina dedicata al centravanti laziale, che ovviamente prima non lo riportava. L'inno c'è. Ed è esattamente di dieci anni prima lo scudetto, è stato inciso infatti nel 1964.

Si tratta di un brano speciale, perchè inserito nel gruppo di quelli partecipanti ad un festival della canzone sportiva organizzato da Gianni Ravera a Sanremo, per rendere omaggio alle squadre del campionato di serie A di quell'anno.


In quella stagione la neopromossa Lazio si comportò al meglio delle sue possibilità tecnico tattiche:  partenza bruciante con 14 punti in undici incontri (i punti erano 2 per la vittoria), seguita da una fase negativa pesante (sette sconfitte) sino al recupero nel finale con alcune belle vittorie che ancora oggi vengono ricordate come imprese, quelle contro il Milan (1 a 0 gol di Morrone) e a Torino con la Juve addirittura per 3 a 0 con reti di Landoni, Maraschi e Morrone.

Cei, Zanetti, Garbuglia, Carosi, Pagni, Gasperi, Maraschi, Landoni, Galli, Morrone, Governato l'undici tipo, con rincalzi come Rozzoni, Mari, Giacomini e Mazzia a completare una rosa troppo ristretta per un torneo a 18 squadre vinto poi dal Bologna nel famoso spereggio con l'Iinter disputato a Roma all'Olimpico.

Il campionato per la squadra allenata da Juan Carlos Lorenzo si concluse con un soddisfacente ottavo posto condizionato peraltro dai continui balletti societari e bilanci sempre al limite del rosso che il Presidente Angelo Miceli, dopo la burroscosa esperienza di Ernesto Brivio, cercava di contenere con difficoltà

La canzone dedicata a quella suadra, s'intitolava "Forza Lazio, la cantava Aura D'Angelo, artista genovese molto popolare nei "favolosi Sessanta" e successivamente conduttrice di programmmi televisivi e radiofonici. Voce brillante e dalla estensione notevole, la D'Angelo incideva per la etichetta Carosello, una delle poche case discografiche ancora in attività con artisti del calibro di Coez, Levante e The Giornalisti prima dell'uscita di Paradiso.

Gli autori sono tre nomi dello Spettacolo molto noti. Per la musica Mario Ruccione, vincitore di due Sanremo con le sue canzoni interpretate da Claudio Villa ed autore tra i tanti di brani celebri come "Vecchia Roma" e "Roma forestiera" nonchè di una delle canzoni simbolo del regime fascista "Facceta nera".

Il testo si deve ad Antonio Amurri, umorista famosissimo autore in coppia con Jurgens prima e Dino Verde poi di tanti programmi televisivi e trasmissioni radiofoniche e dei  testi di canzoni come "Stasera mi butto" per Rocky Roberts, "La banda" e "Vorrei che fosse amore" per Mina e "Zum Zum Zum" e "Buonasera buonasera" per Silvie Vartan. A collaborare con lui un giovane Luciano Rispoli che diventerà uno dei personaggi pià famosi della televisione.

Il disco risente dell'atmosfera gioiosa di quegli anni irripetibili della storia del costume italiano e che fecero da apripista al Boom economico. Una musica frizzante e orecchiabile che trasposrta chi ascolta e che ha il momento clou nel ritornello "Forza Lazio, forza Lazio, vojo vede quante reti je sai fa" che resta subito impresso e che ha una ripresa poi con "Daje Lazio, daje Lazio" pe' davvero nun li devi fa rifiatà" cui segue l'inevitabile "e la Roma sta a guardà".

Da notare che il pezzo inizia con la prima frase di uno slogan che in quei tempi era un classico della tifoseria biancoceleste. Un coro ormai dimenticato ma che per anni è stato intonato dalle gradinate dell'Olimpico e che faceva "l'avemo imbriacati oh oh oh, co' l'acqua de Frascati oh oh oh, cor vino de Bologna oh oh oh, oh che vergogna!".

L'inno di Aura D'Angelo inizia appunto con "l'avemo imbriacati" a cui aggiunge un altro coro che andava per la maggiore come sfottò, ovvero "E nun ce vonno sta". Cori e battute che rimandano a un tifo casareccio e senza tante pretese, quando sugli spalti si andava a vedere il derby senza distinzioni di settore, tra amici e col vestito buono della domenica e spesso con qualche pagnottella per rifocillarsi ed ingannare l'attesa.

La canzone venne proposta per alcune domeniche dagli altoparlanti dell'Olimpico quando giocava la Lazio tra l'annuncio di una pubblicità e l'altra e prima dell'ingresso delle formazioni in campo, come si usava una volta. Poi non si ascoltò più. E su quel primo "Forza Lazio" in musica cadde l'oblio. Fino ad oggi. E' tempo perciò di riascoltarla, eccola.


venerdì 10 gennaio 2020

Quelli che hanno portato il tifo alla Lazio

di FRANCESCO TRONCARELLI


La storia della Lazio non può prescindere dai suoi tifosi. Sempre presenti nel bene e nel male per sostenere l'Aquila. Tutto iniziò sul Muretto della Curva negli anni di Chinaglia con il CML, il primo gruppo organizzato nei 120 anni di vita del sodalizio biancoceleste

Formidabili quegli anni. Le radio private non trasmettevano ancora, di telefonini neanche a parlarne, eppure il tam tam virtuale fra i tifosi della città funzionava ugualmente e così ogni domenica il “tutti allo stadio”, trovava sugli spalti dell’Olimpico la più ampia conferma. In modo speciale in curva, dove se non andavi tre ore prima l’inizio della partita, il posto buono te lo sognavi e ti dovevi adattare agli scomodissimi posti in piedi, quelli “sotto il livello del mare”, nel parterre.

Così all’apertura dei cancelli, c’erano già due-trecento persone pronte all’assalto, per conquistare il “Muretto” della Curva Sud, il penultimo balconcino della gradinata alta verso la Monte Mario per intenderci, da dove si dava il la al tifo e di conseguenza la sveglia allo stadio.

Curva Sud, avete letto bene, perché a quei tempi, negli anni Settanta, nell’ambito delle due tifoserie della Capitale, non c’era distinzione fra le curve. La Sud apparteneva a tutti e veniva occupata di volta in volta dai sostenitori della Lazio o della Roma, a seconda di chi giocasse in casa.

Questo perché nel vecchio Olimpico, quello “originale”, arioso e senza copertura che è esistito fino ai Mondiali di Italia 90, nella Sud si aveva il privilegio e la possibilità di incitare subito i propri beniamini e conseguentemente di farsi sentire da quelli avversari, in quanto le squadre che provenivano dagli spogliatoi, uscivano direttamente sotto la Sud dopo aver percorso un lungo corridoio interno.

La Sud rivestiva quindi una posizione strategica che le consentiva automaticamente di ergersi come unica ed indiscussa “depositaria” del tifo. Ecco perché è qui, in questo settore, che nascono i primi gruppi organizzati dell’Aquila ed è qui che i fedelissimi conquistano sugli spalti lo Scudetto al pari di Chinaglia e soci sul campo.

Il Muretto dà il la al tifo all'entrata in campo della squadra
Proprio in quegli anni infatti, quelli del raggiungimento di un sogno impossibile grazie alla banda Maestrelli, il tifo biancoceleste subì una metamorfosi fondamentale, passando dallo spontaneismo  caciarone che aveva segnato gli anni Sessanta alla militanza organizzata, che avrebbe dato una svolta a tutto un ambiente.

Nello stadio così, la partita si cominciò a vivere con un altro spirito, frutto della partecipazione in prima persona all’evento sportivo, in linea e sulla scia di quel vento riformatore messo in moto dal ’68, quel movimento riformista e al tempo stesso ribellista, che aveva avuto ampie ripercussioni nella società, nel mondo del lavoro, nella scuola e nella politica. E nello stadio, appunto.

Tanti giovani, anzi giovanissimi, entrarono nel giro del tifo in quegli anni di cambiamenti epocali, con l’entusiasmo e l’irruenza tipica della loro età, mettendo in moto un meccanismo che nel giro di qualche anno fece diventare la Curva laziale, una curva forte e compatta, temuta e rispettata, anticonformista (dato il vento giallorosso che spirava nella città) e vincente.

Fu un percorso non privo di ostacoli, perché tutto sommato il tifo a favore della società che ha portato il calcio a Roma esisteva da sempre, ma era troppo datato, nei modi e nei comportamenti. Esistevano infatti i “vecchi” Circoli, poi diventati con termine più moderno, Lazio Club, che svolgevano la funzione di punto di riferimento e ritrovo sul territorio, urbano e provinciale, dei sostenitori della squadra biancazzurra.

Qui, tra una partita di briscola e una di scopetta, si allestivano le trasferte al seguito della squadra, le famose “carovane biancocelesti” e i cosiddetti treni speciali e sporadicamente, incontri conviviali con i giocatori della prima squadra.

la Lazio 1971-72
Ma "The times they are a changin", i tempi stavano cambiando, come aveva annunciato a tutto il mondo il menestrello del rock Bob Dylan e perciò anche sugli spalti dell’Olimpico dal classico e coinvolgente “Lazio cha-cha-cha”, accompagnato dal battito scandito delle mani che sembrava il massimo in fatto di sostegno alla squadra, si sarebbe passati agli slogan lanciati in coro, alle canzoni cantate tutti insieme, agli striscioni personalizzati ed ai tamburi per cadenzare ritmi e tempi. Alla vera organizzazione del tifo insomma.

Del resto la Lazio con i suoi campioni ed il suo gioco, faceva sognare la gente, collezionando successi e risultati positivi a raffica come non mai, logico quindi e anche inevitabile lo starle vicino nel miglior modo possibile. questo contesto di partecipazione, il “Muretto” rivestiva un ruolo fondamentale.

Da lì nasceva tutto. Da lì si dettava la linea. Si decideva cosa fare, come tifare, quando cantare, quando fischiare. E quando agire. Dieci posti ambitissimi distribuiti sulla lunghezza di cinque metri del balconcino, ad esclusivo appannaggio dei capi riconosciuti come tali per militanza e creatività.

Come dire duri e puri e addetti al marketing. Poi, a seguire nelle cinque file successive a salire e in quelle ai lati del balconcino della gradinata alta della curva, lo zoccolo duro dei sempre presenti, il cosiddetto “blocco degli aficionados”. Un migliaio di persone che non mancavano mai, composto da nuove leve del tifo di ogni estrazione sociale e da quelli della vecchia guardia, ossia personaggi che negli anni Sessanta avevano fatto il quarantotto contro l’arbitro Rigato (per il famoso gol di Seghedoni annullato a Lazio-Napoli) o avevano partecipato a epiche scazzottate ai derby coi romanisti.

Pioggia o vento, sole o austerity (nel ’74 il Governo decretò il blocco della circolazione di tutti gli autoveicoli per la crisi energetica), i fedelissimi erano sempre là, al loro posto, al servizio della Lazio e a stimolare con la loro passione tutti gli altri. A fare da collante di questo settore caldo, il CML, il gruppo che da solo garantiva più della metà del “blocco” e che avrebbe cambiato i giochi, con la sua irruenza giovanile.Commandos Monteverde Lazio, come dire, quelli che hanno portato il tifo in curva.

un lancio di Agenzia: funerale alla Roma dei tifosi laziali
Sì perché questo sodalizio storico, è stato in assoluto il primo gruppo giovanile organizzato che si è costituito a Roma (14 novembre 1971) nell’ambito delle due tifoserie capitoline (i Boys giallorossi sono del ’72!), nato appunto per sostenere la Lazio scoppiettante di Juan Carlos Lorenzo con i vari Morrone e Governato e naturalmente Wilson e Chinaglia,

I CML avevano accompagnato la Lazio nella risalita in serie A, portando fantasia e freschezza sugli spalti e lanciando tra l’altro la moda dei bandieroni e della “spallata” (una sorta di ola ante litteram), erano via via cresciuti al pari della squadra ed ora erano pronti a diventare grandi come lei.

Eskimo verde (il giaccone stile militare col cappuccio e la cintura in vita di moda fra gli studenti contestatori) o maxicappotto con ampi revers e i collettoni acquistati nei negozi intorno a via dei Giubbonari o a via del Corso, pantaloni a vita alta e a zampa d’elefante, pullover attillati e maglioni dolce vita, capello lungo e tirato tipo Pooh o arruffato come Lucio Battisti, borsa di tolfa a tracollo dove custodire panini, lattine e zuccotti di lana biancazzurri,foulard da annodare sulla fronte a mo’ di apache e qualche botto avanzato a Capodanno

I ragazzi di Monteverde partivano dalla sede in via degli Orti Gianicolensi con il loro mitico striscione lungo ventidue metri (record imbattuto per il vecchio Olimpico) dal colore blu notte e i caratteri cubitali bianchi con al centro la coccarda tricolore della Coppa Italia, unico trofeo vinto fino a quel momento in settant’anni di storia dalla prima squadra della Capitale e si dirigevano a piazza San Giovanni di Dio, per il concentramento dei supporters diretti allo stadio al capolinea del 28.

I Cml a Firenze
Una volta arrivati all’Olimpico, l’abbraccio ai cancelli con gli altri "correligionari" e via, tutti dentro ai posti di combattimento. E a quel punto iniziava lo spettacolo del tifo. Si cominciava con la coreografica sfilata dei bandieroni. Le bandiere più grandi (anche quattro metri per quattro!) sostenute da robuste e lunghissime canne da pesca, venivano esibite e sventolate lentamente nel parterre della curva, tra gli applausi di chi stava sugli spalti.

Seguiva il corteo interno, che all’occorrenza si trasformava in funerale della squadra avversaria con tanto di bara avvolta dalla relativa bandiera di riferimento, accompagnato da tifosi che avevano con sé tamburi, grancassa e trombe. A guidare il tutto era il mitico Leonida, un anziano tifoso col mantello e i lunghi capelli bianchi che lo facevano tanto un santone, che aveva girato l’Italia in lungo e in largo per seguire la Mitica ed era stato più volte intervistato e ripreso nell’esercizio delle sue funzioni dagli operatori del telegiornale.

Scaldato l’ambiente, si passava ai canti, con canzoni di successo (l’industria discografica a quei tempi viveva ancora il suo boom), che erano state rielaborate nei giorni precedenti le partite nel “pensatoio” degli Orti Gianicolensi, nella sede dei CML cioè e che venivano lanciate di volta in volta allo stadio. Tipo, per ricordarne qualcuna, il “Vincerà, la Lazio vincerà/ e la Roma in B, presto se ne andrà/ sarà come il Brasile di Pelè/ Chinaglia, Wilson, Ghio alè…”, versione riveduta e corretta de "L’Arca di Noè" di Sergio Endrigo che aveva trionfato a San Remo.

Oppure: “E quando il gol, arriverà, tutto lo stadio esploderà e la gente biancazzurra, tutta insieme strillerà:Giorgio gol, Giorgio gol”, che faceva riferimento all’intramontabile blues americano "When the saints", o ancora il più travolgente per esecuzione e coinvolgimento generale dei curvaroli “Nel tuo piede c’è soltanto dinamite, oh-oh-oh/ quando segni la tua Curva salta in aria, oh-oh-oh/ Long John, laralallala, Long John, oh yeah…”, rivisitazione del successo dei Delirium di Ivano Fossati, "Jesahel".
Long John in copertina
Poi c’erano gli slogan, di gran moda in quei tempi di “contestazione al sistema” come si diceva negli ambienti studenteschi e politicizzati, che scimmiottavano, ma “pro Lazio”, quelli più diffusi che minacciosamente risuonavano nei cortei. Due i più noti: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”, e il classico Wilson-Chinaglia-Re Cecconi, alla Lazio lo scudetto e la Coppa dei Campioni, che per anni è stato  urlato in tutti gli stadi d’Italia..

Il momento topico di quello spettacolo fatto di novità al passo coi tempi e folklore consolidato, che andava in onda ogni domenica tra colazioni al sacco a base di panini con la mortazza, lattine di coca cola e mandarini e arance, sempre utili per essere lanciati nei momenti di rabbia  e tensione verso il campo però, era la lettura della formazione.

Un vero e proprio rito, che veniva vissuto con fierezza e scaramanticamente da tutti i partecipanti, una testimonianza d’appartenenza ai colori biancocelesti  e al tempo stesso di attaccamento ai giocatori che quei colori con grinta difendevano sul rettangolo da gioco.

Cerimoniere ufficiale del rito, Luciano, il grande, indimenticabile Luciano, l’equivalente del capo tifoso Dante per la curva giallorossa. Uomo d’azione (a Livorno, da solo, difese un bambino con la bandiera biancoceleste dal vigliacco assalto di alcuni livornesi) ma anche di spirito, perché al di là del suo lavoro come monnezzaro, oggi si sarebbe chiamato operatore ecologico, era un cantante e ballerino mancato.

Il Tassinaro accoglie Giorgione di ritorno da San Siro
I suoi passi di danza in un equilibrio sempre più precario per qualche bicchiere di troppo, in piedi sul “Muretto”, immortalati in “Ultimo mambo all’Olimpico”, il film che ho girato su quegli anni e l’esecuzione della canzone “Marina”, con la curva che ondeggiava come nei concerti Baglioni o Vasco Rossi cantando appresso a lui il ritornello di quel brano di Rocco Granata, sono la testimonianza più genuina di una Curva spettacolare nel vero senso della parola.

E quando Luciano nel silenzio più assoluto iniziava a declamare la formazione della Lazio, un brivido saliva lungo la schiena dei fedelissimi che allo stentoreo “Pulici…”, rispondevano a piena voce “Oleeeè!”.

Poi il testimone della lettura delle formazioni passò al Tassinaro, leader emergente che proveniva dalle nuove leve. E fu l’apoteosi. Con mezza curva  in piedi per partecipare con orgoglio a quel rito, che veniva esaltato coreograficamente dal lancio di coriandoli, ricavati in quantità industriale, dalle copie dei giornali distribuiti gratuitamente allo stadio come Lancio.

Uno spettacolo. Che sarebbe continuato di lì a poco, “più forte e più superbo che pria”, al comparire dei nostri eroi sotto la curva, pronti per la battaglia sul campo. Insomma il famoso “voi con il cuore, noi con la voce”.

No, le radio private ancora non c’erano, di telefonini neanche a parlarne, i canali in tivù erano solo due e trasmettevano in bianco e nero, ma la passione per la Lazio era ugualmente tanta e in quel calcio a misura d’uomo e non di sponsor firmato Lenzini e Maestrelli, l’Olimpico era sempre pieno. E non ci si stancava mai di tifare. Formidabili quegli anni. Quelli dell'inizio del tifo, parte integrante e fondamentale della Storia della prima squadra della Capitale dal 1900.



Sono le 18 e 4 minuti del 14 maggio del 2000...

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