venerdì 14 novembre 2025

La rivincita del "cameriere" Chinaglia

di FRANCESCO TRONCARELLI

Inghilterra-Italia non è mai stata una partita come tutte le altre, soprattutto per noi, perchè giocare contro i “Maestri” d’Oltremanica, inventori della maggior parte degli sport praticati in età contemporanea, è sempre stato un avvenimento molto sentito dalla critica sportiva. 

Ma anche da parte dei tifosi, stanchi di dovere prendere ad ogni partita lezioni di calcio da parte dei bianchi di Sua Maestà senza diritto di appello. Una situazione insostenibile e comunque pesante, fino al 14 novembre 1973, il giorno in cui la Nazionale italiana trionfò per la prima volta in Inghilterra violando il sacro tempio del calcio mondiale di Wembley.

Una data importante per il nostro Calcio e soprattutto una vittoria storica a cui partecipò concretamente  Giorgio Chinaglia, centravanti della Lazio e che con la maglia azzurra ebbe un rapporto difficile, durato solo tre anni e finito col clamoroso gesto verso la panchina nel mondiale tedesco, diffuso in mondovisione.

Un rapporto però che ebbe dopo l'esordio in Bulgaria (gol appena entrato e da debuttante in Azzurro direttamente dalla serie B), il momento più alto sicuramente dal punto di vista umano oltre che calcistico, proprio quella notte magica a Londra.

E questo perchè Long John era stato un emigrato in Galles da bambino con tutta la famiglia, come migliaia di italiani che lasciavano il nostro paese in cerca di fortuna all'estero, gente che si faceva in quattro per sbarcare i lunario, accettando spesso i lavori più umili, minatori, sguatteri e quando andava di lusso camerieri.

Una trafila che anche Giorgio, arrivato bambino insieme alla sorella Rita a Cardiff dove c'era il già padre Mario che aveva aperto dopo molta fatica un ristorante italiano, fece prima di iniziare a tirare i primi calci al pallone nella patria del football, sino ad approdare nello Swansea. 

Ecco perchè quella partita con la nostra Nazionale per lui era importantissima. Perchè tornava da calciatore vero in una terra che non lo aveva voluto come giocatore e nella quale aveva fatto di tutto per mantenersi indipedente e cullare il suo sogno. 

Anche ripulire dal fango e lustrare gli scarpini dei titolari della prima squadra che poi gli gettavano con diprezzo misto a superiorità, qualche moneta sul pavimento: una mancia all'italiano.


Una partita di grande orgoglio per lui quindi, ma che dopo i fatti di Lazio-Ipswich, i famosi incidenti in campo con la rissa tra giocatori che avevano portato alla squalifica della Lazio da tutte le competizioni europee, non si sarebbe giocata in un'atmosfera idilliaca.

Ad attizzare il fuoco delle polemiche e degli animi, ci avevano pensato i tabloid inglesi, che alla vigilia della partita ne scrissero di ogni, sino al titolo dispregiativo di alcuni giornali che annunciava la presenza sugli spalti dello stadio di "30.000 camerieri a tifare Italia”.

Ma questa miccia accesa dalla stampa, non fece altro che rafforzare i nostri connazionali sulle gradinate nel tifo incessante e gli azzurri in campo, guidati da un Chinaglia pronto alla battaglia e alla vittoria. La partita giocata sotto una pioggia incessante tra azioni tavolgenti, capovolgimenti di fronte e parate dei due numeri uno a cominciare dal grande Dino Zoff, ebbe il suo epilogo al 42° del secondo tempo.

Gli azzurri infatti su contropiede, ottengono il gol della vittoria clamorosa e storica. La difesa infatti si libera bene poggiando su Capello che a centrocampo controlla la palla e appoggia verso Chinaglia. Il centravanti scatta bene, allarga leggermente per evitare l’intervento di Mc Farland, lo dribbla e calcia forte trasversalmente. 

Il portiere inglese Shilton si oppone come può, a mani aperte, e il pallone rimbalza al limite dell’area piccola dove Capello, che ha seguito l’azione, lo aggancia e lo mette in rete con un tap in lieve. E' fatta, gli italiani sugli spalti esultano con un boato interminabile. La gioia è ai massimi ed è stampata nel volto di Chinaglia che alza le braccia al cielo ed esulta felice.

I minuti finali sono un susseguirsi di emozioni, assalti degli inglesi, respinte degli azzurri e l'ennesima fuga in avanti di Giorgione per tentare il raddoppio. Il tiplice fischio finale dell'arbitro Lobo sancisce la vittoria italiana sui maestri britannici e scatena la gioia dei nostri tifosi che riescono ad entrare in campo col tricolore.

E' apoteosi, la "Nazionale del camerieri" aveva battuto per la prima volta nella sua storia gli Inglesi a casa loro, Chinaglia, figlio di un ex cameriere, a 18 anni a suo volta cameriere in un pub dove lavava le tazzine, viene portato in trionfo. 

Il cuore ha vinto sulla tecnica, Chinaglia sul suo passato e gli italiani in Inghilerra sul loro presente. E' una grandissima rivincita per tutti. E questa volta il piatto è servito, veramente.

martedì 7 ottobre 2025

Su c'è er Maestro...

 di FRANCESCO TRONCARELLI

Non solo un allenatore, ma anche un padre di famiglia, questo era Tommaso Maestrelli, un uomo di sport che insegnava calcio e considerava i suoi ragazzi come dei figli da proteggere, coccolare e all'occorrenza redarguire, ma sempre per il loro bene e per quello della comunità a cui appartenevano che era la squadra.

Un grande uomo di sport e una bella persona, semplice, alla mano, con quello sguardo che ispirava serenità e fiducia e che diceva tutto, un gran signore che aveva fatto tesoro di tutte le esperienza della sua vita a cominciare dalla guerra per proseguire con il calcio praticato ai massimi livelli, per capire il prossimo da psicologo dilettante ma dalla saggezza infinità.

Era nato a Pisa il 7 ottobre del 1922, città che poi abbandonò a seguito dei trasferimenti del padre, dipendente delle Ferrovie, fino a quando, tredicenne, si stabilizzò con la famiglia a Bari. Qui entrò nei pulcini della squadra pugliese per poi debuttare a soli 16 anni in serie A.

Qui fece l'incontro più importante della sua vita.Conobbe infatti Angelina “Lina”, figlia di un vigile urbano, che il 2 agosto 1947 diventerà sua moglie dandogli quattro figli, Patrizia, Tiziana e i gemelli “portafortuna” Massimo e Maurizio.

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il giovane Tommaso venne chiamato alle armi rimanendo tra l'altro ferito a una gamba lievemente in un combattimento che gli valse la Croce di Guerra al merito, proseguendo dopo l'Armistizio a combattere con i partigiani al confine nei Balcani.

Tommaso e LinaTerminara
Terminato il conflitto continuò a giocare con la Lucchese e la Roma sino ad approdare in Azzurro nella Nazionale di Pozzo alle Olimpiadi di Londra.

Appesi gli scarpini al chiodo, Tommaso iniziò i primi passi da allenatore nella Lucchese per poi trasmettere i suoi insegnamenti ai giocatori della Reggina di Granillo contribuuendo alla storica promozione della società calabrese in serie B e venendo premiato con il Seminatore d’oro (il primo).

Poi tre stagioni al Foggia, sfiorando nella prima la promozione in serie A e la vittoria della Coppa Italia  e centrandola nella seguente che gli valse il secondo “Seminatore d’oro”. 

In serie A, nel girone di andata della stagione 1970-71 il Foggia fu la squadra rivelazione, poi, inaspettatamente, nel ritorno la squadra perse brillantezza e retrocesse per differenza-reti. 

A quel punto la svolta della sua carriera da mister. Lenzini che era rimasto affascinato dal gioco del suo Foggia che gli aveva rifilato un sorprendente 5 a 2 lo volle come nuovo allenatore della Lazio al posto di Lorenzo. 

il primo giorno a Tor di Quinto  

E a Roma, con la Prima squadra della Capitale, Maestrelli compì il suo capolavoro portando la squadra biancoceleste dalla serie cadetta allo Scudetto in solo tre campionati. Un'operazione riuscita e un obiettivo centrato grazie al suo impegno e la sua preparazione e contro lo scetticismo della piazza e le contestazioni che lo avevano accolto.

Un nuovo corso entusiamante e vincente iniziato subito con la conferma di Giorgio Chinaglia al centro dell'attacco nonostante le richieste di acquisto pervenute a Lenzini (“Senza Chinaglia non posso garantire nulla” ripeteva), e via via con la costruzione di un "mosaico" rivelatosi formidabile grazie a calciatori del calibro di Mario Frustalupi, Sergio Petrelli, Felice Pulici, Luigi Martini, Luciano Re Cecconi, Franco Nanni, Pino Wilson, Giancarlo Oddi e il golden boy 

Tre stagioni da incorniciare e che ebbero il momento ovviamente migliore alla penultima giornata del campionato 1973-74, nella partita giocata all'Olimpico contro il Foggia, vecchia squadra di Tom. Un appuntamento cruciale con la storia a cui la Lazio arrivò partita dopo partita, giocando sempre ai massimi livelli. 

La Lazio infatti aveva iniziato subito bene battendo il Lanerossi, aveva vinto i due derby e battuto la Juve sua concorrente diretta per 3a1. Alla penultima giornata, il 12 maggio, Long John su rigore ottenuto da Garlaschelli batté il Foggia e sancì la conquista del primo scudetto laziale con una giornata di anticipo. 

12 maggio 1974

La foto che immortala Maestrelli quel giorno in piedi davanti alla panchina subito dopo il triplice fischio dell'arbitro Panzino di Catanzaro, dice tutto su di lui, sul suo stato d'animo, sull'emozione che stava vivendo, su quella gioia mista a stordimento che lo stava travolgendo e sull'impresa che aveva compiuto diventando in quel momento l'uomo più felice del mondo.  

La squadra ebbe la migliore difesa per il secondo anno consecutivo e il primato di gol per Chinaglia capocannoniere del torneo con 24 reti. A fine stagione fu assegnato a Maestrelli il suo terzo "Seminatore d'oro" (unico allenatore a riceverlo per ciascuno dei tre campionati professionistici), riconoscimento meritatissimo che sancì la sua definitiva affermazione fra i migliori tecnici del nostro campionato.

La Lazio Campione d'Italia nel 74 fu un sogno per il popolo biancoceleste e una vera impresa calcistica, visto lo strapotere economico e mediatico delle squadre del Nord e senza dubbio artefice di quella impresa fu proprio Tommaso Maestrelli che seppe guidare con i suoi insegnamenti tecnico tattici e plasmare con la sua proverbiale umanità e comprensione, quei calciatori divisi su tutto durante la settimana ma che poi si ritrovavano uniti come un sol uomo la domenica. 
 
Maestrelli con il suo calcio all'olandese che aveva ammaliato Gianni Agnelli che lo voleva alla Juve e i vertici della Federazione Gioco Calcio a cui disse no per non tradire i suoi ragazzi e i tifosi, avrebbe potuto aprire un ciclo, foriero di ulteriori successi e vittorie, ma le cose purtroppo come è noto non andarono così. 

Maestrelli un secondo padre per Chinaglia

Il tumore al fegato che lo colpì già la stagione successiva allo Scudetto, fu un duro contraccolpo per la squadra che accusò il colpo e arrivò quarta con Bob Lovati amico e primo consigliere del buon Tommaso in panchina. 

La stagione successiva 1975-1976, con Maestrelli ricoverato, il Presidente Umberto Lenzini cedette alcuni giocatori importanti come Nanni, Oddi e Frustalupi, e affidò la guida della squadra ad un allenatore emergente, Giulio Corsini, che dopo sette giornate si ritrovò a lottare per non retrocedere. 

Quindi le condizioni di Tommaso Maestrelli migliorarono grazie ad una cura sperimentale, e riprese il suo posto sulla panchina della Lazio. Nel finale di campionato il tecnico romano dovette anche fare a meno di Giorgio Chinaglia, partito improvvisamente per gli Stati Uniti. 

Maestrelli allora affidò la maglia n. 9 a un ragazzo proveniente dal settore giovanile, il trasteverino Bruno Giordano che lo ripaga con impegno e reti. La Lazio si salvò all'ultima giornata, pareggiando 2-2 a Como. Sotto di due reti, quando tutto ormai sembrava irrimediabilmente perso, rimontò con Giordano e Badiani. Questa volta la differenza reti fu favorevole alla Lazio e a retrocedere fu l'Ascoli,

la banda Maestrelli

Dopo questa salvezza accolta come un altro tricolore, il Maestro come era chiamato da tutti, si concesse una breve vacanza in Abruzzo dall’amico Mario Tontodonati ex compagno di squadra nel Bari e nella Roma, un momento di gioia e serenità prima della tragica fine.

In autunno infatti, debilitato dal ritorno in panchina, il male tornò inesorabile. Maestrelli raccomandò a Lenzini Vinicio come tecnico, salutò i ragazzi e iniziò il calvario finale. Il suo ultimo giorno da laziale lo visse il 28 novembre 1976, in clinica, ascoltando alla radio il derby. 

Giordano che aveva lanciato gli regalò l'ultima gioia segnando il gol della vittoria, Felice Pulici che aveva difeso quel gol parando l'imparabile, gli dedicò, trattenendo a stento la commozione, la vittoria dai microfoni di "Tutto il calcio". Maestrelli ascoltò le parole del suo numero uno poi entrò in coma e fu trasportato di corsa in clinica. 

Al suo capezzale nei giorni seguenti sfilò tutta la squadra e per ultimo e sino all'ultimo, accanto a lui e insieme ai familiari, anche Giorgio Chinaglia arrivato apposta dall'America. Il 2 dicembre Tommaso Maestrelli finiva di soffire e moriva a soli 54 anni lasciando un vuoto enorme in chi l'aveva conosciuto e apprezzato e in chi lo aveva amato come un padre. 

Da allora il suo ricordo è sempre vivo. E non poteva essere altrimenti perchè Tommaso Maestrelli è stato un grande uomo di sport che ha segnato con le sue gesta e l'intera vita il nostro Novecento. Caro Maestro che ci guardi da lassù, auguri ovunque tu sia, sicuramente nel paradiso degli Eroi biancocelesti.

Pino, Tommaso e Giorgio di nuovo insieme


lunedì 29 settembre 2025

Oggi, 29 settembre...

 di FRANCESCO TRONCARELLI

Seduto in quel caffè, io non pensavo a te
guardavo il mondo che girava intorno a me
poi d’improvviso lei sorrise e ancora prima di capire
mi trovai abbracciato a lei stretto come se non ci fosse
che lei…
 

E’ il 29 settembre e il pensiero corre subito a uno dei primi successi di Lucio Battisti. Un brano che nonostante siano passati tanti anni, conserva ancora la freschezza della prima volta, continuando a regalare emozioni oggi come allora perché è uno dei capolavori del nostro pop.

Quando uscì il disco era il 1967, e quella era la terza canzone scritta da Mogol insieme a Lucio, dopo 'Dolce di giorno' e 'Per una lira'. Un pezzo dal titolo insolito, idealmente dedicato dal poeta della musica italiana alla moglie Serenella che in quel giorno celebrava il suo compleanno.

"Lucio veniva da me la mattina, alle 9 in punto –ricorda il paroliere-, prendevamo un caffè e poi lui cominciava a suonare con la chitarra la melodia sulla quale io costruivo il testo”, il brano fu completato in un paio di giorni e una volta pronto si cercò  nell’ambito della Ricordi, la casa discografica milanese dove lavoravano entrambi, qualcuno a cui affidarlo.

Quel qualcuno fu presto individuato nell’Equipe 84, il complesso beat più popolare di quegli anni composto dal “principe” Maurizio Vandelli, voce solista del gruppo, il gigante Victor Sogliani, bassista, il piccolo Alfio Cantarella, batterista e Franco Ceccarelli, seconda voce e chitarrista.  

Con l'esaurirsi della vena di protesta beat che aveva scosso la gioventù “capellona”, i più accorti si erano resi conto che per sopravvivere senza farsi prendere alla sprovvista dai nuovi stili e dalle varie mode che iniziavano a farsi strada, bisognava avere l'occhio lungo e rinnovarsi.

Vandelli così si tuffa su questo brano melodico che segna la consacrazione come autori della premiata ditta "Mogol & Battisti" e lo trasforma con un lavoro geniale di arrangiamento ricco di sonorità nuove e di rielaborazione dei tempi musicali in un disco che farà epoca. 

Questo brano infatti sarà considerato il primo pezzo italiano di rock psichedelico, anticipando di tre mesi persino “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band” dei Beatles, ritenuto il capolavoro mondiale di quel genere.

La canzone è la storia di un tradimento. Un uomo è seduto in un bar quando improvvisamente incontra il sorriso di una donna e ancora prima di mettere a fuoco la situazione, si ritrova sottobraccio a lei mentre la serata si svolge tra un ristorante ed un locale da ballo per poi finire nel letto del protagonista, dove lui si sveglia mentre una voce scandisce al Giornale Radio il nuovo giorno, 30 settembre. Era tutto un sogno?

L'utilizzo di un vero speaker della Rai ingaggiato per l’occasione (un'idea dell'ultimo momento, quando il pezzo era stato già registrato) che attraverso due annunci del giornale radio scandiva l’arco temporale (29 e 30 settembre) in cui si svolge la storia è un'idea che si rivela vincente.

Un'idea innovativa che resta scolpita nell'immaginario collettivo, come sono altrettanto all’avanguardia il testo e  la ricerca di un sound che trasmetta a chi ascolta, una sorta di atmosfera onirica dell'incontro con "l'altra".

Il valore aggiunto a quello che diventerà un successo enorme, è dato dalla voce di Maurizio Vandelli, capace di salire di tonalità come nessun altro frontman dei gruppi più in voga di quel periodo e che riesce a vocalizzare l'angoscia del brusco risveglio alla realtà, ben coadiuvato nei cori dagli altri tre compagni di avventura musicale.

 

“29 settembre” insomma è un brano veramente moderno, arrangiato in modo eccellente e che si avvicina alla produzione dei Beach Boys o dei Beatles ma senza peraltro scimmiottarli o prenderli ad esempio, è un’altra cosa.

Se il menestrello Donovan e i fantastici Kinks in Inghilterra cercano nuove strade alla loro musica, l'italianissima Equipe 84 cerca nuove sonorità a casa propria confermandosi il complesso, come si chiamavano allora le band, numero uno.

Quello più preparato e quindi capace di rinnovarsi senza sussulti e difficoltà, l'unico a potersi permettere certi esperimenti all'infuori del classico pezzo beat chitarra-basso sostenuto magari da una tastiera Farfisa, come tutti.

Alle registrazioni effettuate presso gli Studi Ricordi, che in quegli anni si trovavano in Via dei Cinquecento a Milano, partecipò anche l'Orchestra Sinfonica della Scala di Milano e fu effettuata su un registratore a otto piste, il primo utilizzato in uno studio di registrazione italiano che esordì proprio con questa canzone. 

Le manipolazioni di Vandelli sul master originale e svariate sovraincisioni riuscirono poi a dare a quel brano un suono particolare e cristallino. Nuovo e accattivante. Due anni dopo, nel 1969, anche Battisti cantò questa canzone inserendola nel suo primo album, “Lucio Battisti”. 

La sua interpretazione è più tradizionale rispetto a quella dell'Equipe e risente delle atmosfere tipicamente melodiche di gran parte della sua produzione. Nella sua versione, più lenta e armoniosa, la voce dello speaker è sostituita da un assolo di chitarra e il contrappunto di un flauto e quello di altri fiati come l’oboe, conferiscono una suggestione particolare molto accattivante.

Oggi, 29 settembre, a più di 50 anni da quel trionfo che squarciò gli orizzonti della musica leggera, riascoltiamo Lucio Battisti nella versione restaurata direttamente dai nastri analogici originali e rimasterizzata con tecniche digitali d’avanguardia, che ci restituisce il genio che ha rivoluzionato il nostro pop nel suo splendore artistico e creativo. 

venerdì 27 giugno 2025

Peppino di Capri, il quinto Beatles

 di FRANCESCO TRONCARELLI 


Una serata in suo onore al Trianon organizzata da Marisa Laurito col teatro sold out da mesi, un libro che racconta la sua vita, un film per la TV girato da Cinzia TH Torrini visto da milioni di spettatori.

Da quando Amadeus ha accolto la mia proposta lanciata attraverso i social e supportata da migliaia di followers per un premio alla carriera a Sanremo, Peppino di Capri non si è più fermato.

A 85 anni sta vivendo una seconda giovinezza, applaudito e benvoluto da tutti come una volta quando piazzava i suoi brani in classifica ed era uno dei divi della canzone italiana.

Servizi nei programmi del pomeriggio televisivo, articoli su riviste e giornali e addirittura la cagnolina di Striscia la notizia che entra in scena tra Michelle Hunziker e Gerry Scotti sulle note di "Champagne" dopo che il sondaggio fra gli spettatori ha indicato quel nome per lei. 

Peppino, sempre Peppino, fortissimamente Peppino. E non finisce qui. In questi giorni si è tornato a parlare di lui perché si stanno celebrando i 60 anni del tour dei Beatles nel nostro paese. Era il 24 giugno del 1965 quando i Fab Four sbarcarono in Italia per tenere dei concerti a Milano, Genova e Roma.

E Peppino c'era. Faceva parte di quel gruppo di artisti di supporto alle esibizioni degli Scarafaggi di Liverpool che precedevano la loro entrata in scena. Lui era il più importante, il più conosciuto di tutti, non a caso il suo nome fu l'unico ad essere indicato nei manifesti che annunciavano i concerti dei Beatles.
 


Un privilegio che la dice tutta sulla sua popolarità in quel periodo al di là del fatto che facesse parte della casa discografica Carish che distribuiva i dischi della Parlophone per cui incidevano Paul, John, Ringo e George. Peppino di Capri era un nome spendibile a livello pubblicitario, l'unico.

A sessant'anni da quello evento, spunta fuori una vera sorpresa, una grande quantità di foto inedite recuperate nell'archivio dell'istituto bancario Intesa Sanpaolo, immagni mai viste scattate dai reporter dell'agenzia Publifoto che seguirono in quei giorni frenetici i protagonisti dei concerto. I Beatles in primis e naturalmente Peppino di Capri. 

Il recupero di questo materiale prezioso si deve ad Annamaria De Caroli, esperta di comunicazione e soprattutto grande fan del gruppo inglese che ha setacciato e visionato un enorme quantitativo di foto che giacevano "sepolte" e dimenticate negli archivi delle più famose agenzie fotografiche dell'epoca per riunirle e catalogarle per preparare una grande mostra. 

Oltre 1400 foto inedite e spettacolari nel loro bianco e nero che ritraggono i Beatles durante i concerti e nel tour (conferenze stampa, viaggi, ecc.) tra le quali ci sono anche quelle degli artisti supporter con in testa un Peppino di Capri giovanissimo e tirato a lucido.
 
Alcune di queste immagini lo mostrano sul palco del Vigorelli insieme ai suoi Rockers, i bravissimi Mario Cenci, Bebè Falconieri, Gabriele Varano e Pino Amenta altre dietro il palco, e sono curiosissime. Peppino, quinto Beatles per acclamazione, è stato colto dall'obiettivo mentre armeggia con la sua cinepresa.
 
Di lì a poco riprenderà l'esibizione dei Fab Four, un filmato a colori mandato poi in onda in uno speciale sull'evento curato da Michele Bovi per la Rai quarant'anni dopo, quella stessa Rai che all'epoca ignorò il tutto credendo che quello dei ragazzi di Liverpool fossero una moda effimera, destinata a sparire. Le ultime parole famose...    
 










 


mercoledì 14 maggio 2025

Sono le 18 e 4 minuti del 14 maggio del 2000...

di FRANCESCO TRONCARELLI

Lo scudetto della squadra più forte che si batteva contro i poteri forti, lo scudetto della felicità oltre ogni ragionevole speranza, lo scudetto di chi aveva creduto nelle sue possibilità, ma anche lo scudetto della gente che non ne poteva più di subire torti, di un popolo che aveva detto no alle ingiustizie, di una grande famiglia che si riconosceva nei valori dello sport e che per bandiera aveva i colori del cielo.

Questo e molto altro è stato il tricolore conquistato dalla Prima squadra della Capitale il 14 maggio del 2000, nell'anno del Centenario e di una città in festa perenne per i propri beniamini e per le loro vittorie, tra cortei di gioia alternati a marce di protesta senza soluzione di continuità nel corso di un campionato giocato all'attacco e con il grande risultato finale come premio per tutti.

Uno scudetto emozionante, il più lungo della storia del calcio, arrivato nel terzo tempo quando tutto era già finito negli altri campi e tutti erano incollati alle radioline per sapere come andava a finire mentre l'Olimpico occupato persino sul terreno di gioco attendeva trepidante il risultato da Perugia.

La Lazio infatti aveva fatto il suo dovere sino in fondo asfaltando la Reggina con tre gol siglati da Inzaghi, Veron e Simeone.  La lunga ricorsa sulla Juve inziata con un distacco di sei punti prima della sfida vinta il primo aprile al Delle Alpi con un colpo di testa magico di Simeone, era giunta al capolinea.


Due i punti che dividevano la capolista, quella Vecchia Signora da sempre ammanicata col potere dalla Lazio, la società guidata da Sergio Cragnotti che voleva dire la sua contrastando quel potere per vincere solo con la forza dei suoi giocatori. Un'impresa, come quello che era successo la domenica precedente aveva dimostrato. Ricordate?

La penultima giornata infatti aveva scatenato polemiche furiose. La Lazio vince a Bologna contro i due ex Andersson e Signori (la partita finisce 3-2) e la Juventus batte il Parma per 1-0. Nell’occasione torna al gol Del Piero, ma non è quello lo scandalo.

Lo scandalo al sole che tutti vedono meno che uno, è un rigore non concesso agli emiliani e soprattutto un gol annullato al Parma al minuto 89, grazie al quale la Lazio avrebbe raggiunto la capolista a 69 punti.

Una decisione così ingiustificata da parte dell’arbitro (lo stacco di testa di Cannavaro appare a tutti più che regolare) scatena l’ira generale e per una volta tifosi e stampa urlano “vergogna” all’unisono. Forse basterebbe una voce umile e autorevole, quella del mister Carlo Ancelotti, a placare le polemiche, ma non c'è la volontà.


Anzi, a esacerbare gi animi ci penserà il Direttore generale bianconero Luciano Moggi. Le sue parole e quel tono arrogante che gli è abituale gettano benzina sul fuoco. Basta non se ne può più. C'è il rischio del biscotto per la Mitica dopo lo scudetto perso per un punto nella stagione precedente. 

La piazza biancoceleste allora si mobilitò, venne organizzato un sit in a via Allegri sotto la sede della Federazione gioco calcio,  una protesta pacifica che poi degenerò in incidenti, traffico impazzito, cariche della polizia. Scene incredibili non certo volute da chi voleva solo gridare il proprio sedegno per quello che era successo.

Il 14 maggio dunque si era arrivati al redde rationem, la Lazio (entrata in campo con mezza curva Nord vuota per l'ennesima protesta al grido de "Il calcio è morto") il suo l'aveva fatto, bisognava vedere cosa sarebbe successo al Curi fra i perugini e la Juventus. 

Quella domenica in cui si concludeva il campionato, su tutta l’Italia il tempo era buono. Solo sulla zona di Perugia si addensano nuvole minacciose. Anzi, per dirla tutta, sul capoluogo umbro ancora splendeva il sole. Gli addensamenti nuvolosi riguardavano soltanto Pian di Massiano, la zona extraurbana sulla quale sorge lo Stadio Renato Curi.


E mentre all'Olimpico gli olè dei tifosi accompagnano le finte e i lanci di Simeone e compagani, sul Curi si scatena un temporale di rara intensità, un diluvio che rende il campo un acquitrino. La partita è ferma sullo 0-0 e ci vuole oltre un’ora per prendere una decisione.

L’arbitro Collina, un fischietto con la schiena dritta, dopo l'inevitabile attesa e le dovute prove per constatare che il pallone rimbalzi, ritiene che si possa giocare.  E così alle 17.11, quando Lazio-Reggina è già finita, a Perugia inizia la ripresa.

Nel momento in cui la palla viene portata al centro del campo, Lazio e Juventus hanno entrambe 72 punti e solo lo spareggio potrebbe dare un nome alla squadra campione d’Italia. Ma al 4°, avviene la svolta.

Punizione di Rapaic, Conte fallisce in piena area la respinta e consegna la palla sui piedi del capitano perugino Calori. Il difensore tira di prima intenzione e infila nell'angolino alla destra di Van der Sar.


L'Olimpico che è collegato tramite gli altoparlanti alla radiocronaca della partita che tutta l'Italia sta seguendo, esplode in un boato assordante, qualcuno fra i tifosi storici, lo paragonerà a quello udito a Lazio-Milan vinta al 90° nel 1973 con un gran gol di Re Cecconi.

Ora la classifica dice Lazio 72, Juventus 71. Fare gioco su quella superficie non è semplice ma se può farlo il Perugia, possono farlo anche i loro avversari. I bianconeri tentano il tutto per tutto, mentre a Roma l’Olimpico, dopo il boato di felicità per il gol di Calori, si è trasformato in luogo di preghiera.

Comunione (d'intenti) e liberazione (dai torti subìti). In campo ci sono migliaia di tifosi scesi dalle tribune per una invasione simbolica, sugli spalti a quelli che hanno assistito alla partita si sono aggiunti i tifosi che stavano a casa per patecipare a questa attesa incredibile ed emozionante. I 70 mila dell'inizio delle ostilità sono via via diventati 80 mila.

Tuti sono concentarti, tesi, in silenzio ascoltano quello che sta succedendo sul campo del Perugia. Con la mente e il cuore sono a 200 km di distanza. Sull’ultimo assalto bianconero, con Pippo Inzaghi che mette fuori da pochi metri la palla del possibile spareggio, per un attimo scende il gelo, seguito poi da un urlo liberatorio.


Su quell’errore clamoroso l’arbitro fischia la fine e immediatamente il radiocronista Riccardo Cucchi annuncia: "Mentre in questo istante Collina dichiara concluso il confronto: sono le 18 e 4 minuti del 14 maggio del 2000, la Lazio è Campione d’Italia 1999-2000, la Juventus è stata battuta per 1-0 a Perugia dalla squadra di Carletto Mazzone. Linea all’Olimpico”.

E' l'apotesosi. Per squadra e tifosi è una gioia più violenta di un pugno in pieno volto, più inaspettata della schedina vincente del Superenalotto milionario. Tutti esultano, molti si abbracciano, qualcuno piange. L'euforia è inarrestabile.

È la vittoria della tenacia, della giustizia, della fede in un Dio ("Dio es del Lazio titola la stampa estera) che ogni tanto si ricorda di esistere per mandar giù la pioggia purificatrice come nel finale dei Promessi sposi di Manzoni, per sanificare un campionato al centro dei peggiori sospetti e renderlo puro. Una volta al secolo, alla Lazio succede anche questo.

"Sono le 18 e 4 minuti del 14 maggio del 2000 la Lazio è Campione d'Italia", parole entrate nella storia della Prima squadra della Capitale che sancivano la fine di un campionato incredibile conclusosi con la rocambolesca e meritata vittoria dei ragazzi Sven Goran Eriksson, "il perdente di successo" secondo certa stampa romana.

Una giornata di autentica passione per i tifosi biancocelesti, un trionfo figlio di una squadra stellare che con forza e determinazione riuscì a raggiungere un traguardo che resterà per sempre negli annali del Calcio italiano e che oggi venti anni dopo procura una tremenda nostalgia e una rinnovata emozione al solo pensiero. Sì, quel 14 maggio del 2000 è stato meraviglioso e resterà per sempre nella memoria collettiva della gente laziale.


lunedì 14 aprile 2025

Frustalupi, la mente dello Scudetto

 di FRANCESCO TRONCARELLI

Di quella banda di scapestrati che giocava a pallone come nessun altro mai era la mente, in tutti i sensi. Alle pistole che i suoi compagni usavano come passatempo, preferiva la lettura dei giornali e dei libri, per essere sempre aggiornato e conoscere nuove cose.

Mario Frustalupi che ci lasciava un 14 aprile come oggi del 1990 in un drammatico incidente automobilistico in quella Italia in viaggio per le vacanze pasquali, era il cervello della Lazio di Maestrelli, il regista che sapeva cosa fare con i suoi piedi fatati per guidare la squadra alla vittoria.

E pensare che quando Antonio Sbardella lo aveva portato a Roma molti storsero il naso. E' vecchio dicevano, alludendo ai suoi 32 anni che lo facevano il giocatore più anziano della rosa, è al capolinea, sottolineava qualcun altro.

Era arrivato in cambio di un idolo della tifoseria, Giuseppe Massa e questo era difficile per molti da digerire. Gli inzi poi non furono fra i migliori, quella Lazio arrancava in Coppa Italia e lui non riusciva ad emergere scontrandosi nel ruolo di centrocampista con Re Cecconi, pallino di Maestrelli.


Un copione già visto quando giocava nell'Inter col dualismo con l'inamovibile Sandro Mazzola, da cui usciva puntualmente sconfitto nonostante buone prestazioni e il contributo alla conquista del Tricolore per i nerazzurri.
 
Fu proprio il Maestro però a trovare la quadra arretrando Cecco Netzer e affidando al Frusta le chiavi della squadra, nominadolo sul campo ufficialmente regista del suo progetto. E le cose cominciarono a funzionare.
 
Il campionato 1972/73 vede i biancocelesti giocare un calcio divino e letale per gli avversari. La banda Maestrelli va addirittura in testa e, seppure con un piccolo calo nella parte centrale del torneo, infila otto vittorie consecutive.

La Lazio sfiora lo scudetto che viene perso negli ultimi minuti dell'ultima giornata di campionato a Napoili fra una fatal Verona per il Milan e una Roma che si arrende alla Juve. Frustalupi ormai è un idolo della gente laziale.
I tifosi ne apprezzano la serietà e la visione di gioco, gli addetti ai lavori le qualità tecniche. Segna anche 2 reti. L'anno successivo la Lazio conquista il suo primo scudetto e Frustalupi è il cervello, la mente, il regista di quel calcio all'olandese praticato dalla Lazio di Maestrelli e di cui Chinaglia è il terminale offensivo, che va in rete anche grazie ai suoi assist.

E' campione d'Italia ad un'età in cui molti suoi colleghi hanno già da tempo preso il viale del tramonto o hanno appeso gli scarpini al chiodo. Mario Corso suo compagno all'Inter, dopo lo scudetto del 12 maggio 1974 afferma:

"Quando Frustalupi venne ingaggiato dalla Lazio, io ho sostenuto che quello sarebbe stato, a lungo andare, il più importante colpo del mercato. Adesso credo che siano tutti a darmi ragione. Ma io non sono un indovino, sono uno che il calcio lo conosce abbastanza per poter definire Frustalupi un campione".

Dal suo canto l'orvietano Mario si diceva invece "contento di non essere un campione, un bambino prodigio alla Rivera o alla Mazzola. Loro -spiegava- hanno dovuto difendere per anni una reputazione da fuoriclasse. È difficile e logorante. Io sono cresciuto piano piano e ho avuto meno stress. Durerò molto più a lungo".

E aveva ragione perchè smetterà di illuminare il gioco ai suoi compagni, alla bella età di 39 anni dopo essersi preso la soddisfazione di portare il Cesena (dove giocava con Giancarlo Oddi) in coppa Uefa e trascinare la Pistoiese (con Borgo altro ex laziale) in serie A.

Spirito allegro e con la battuta pronta, aveva sempre voglia di scherzare, anche con i tifosi al campo d'allenamento di Tor di Quinto: "Ridete oggi che piangerete domenica" diceva loro.

Nei rapporti interni aveva carisma e non si intrometteva nelle faide tra clan di quella banda di scalmanati e spesso, grazie alla sua capacità di sdrammatizzare, era quello che spegneva i contrasti con la sua proverbiale ironia.

Capelli lunghi nonostante una calvizia incipiente, basettoni, pantaloni a zampa d'elefante, un sorriso contagioso appena arrivato alla Lazio aveva litigato con Chinaglia, per poi diventarne amico apprezzandone le qualità techiche e la sua fanciullesca passione per il gol.

A Tor di Qinto così, rivolgendosi ai tifosi che lo applaudivano a ogni giro di campo, prometteva che gli avrebbe fatto segnare almeno 100 reti tra gli applausi e le risate generali.

Al caro Frusta, nonostante fosse stato messo alla porta dalla rivoluzione (fallita) di Corsini, la Lazio era rimasta nel cuore. Non a caso fu lui anni dopo, dirigente della Pistoiese ed esperto di calcio, a consigliare alla società biancoceleste Ruben Sosa.

Ed ironia del destino, mentre quel 14 aprile 1990 arrivava la tragica notizia dell'incidente mortale sulla autostrada Voltri-Sempione, il puntero uruguagio segnava per la Lazio all'Ascoli nella partita che si giocava al Flaminio. Il cerchio si chiudeva così mestamente.




 

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lunedì 27 gennaio 2025

Luigi Tenco, l'ultima notte

di FRANCESCO TRONCARELLI

 

Il 27 gennaio del 1967, la parabola umana e artistica di Luigi Tenco si chiudeva tragicamente nella stanza 219 dell’hotel Savoy di Sanremo, dopo aver cantato per l’ultima volta la canzone su cui aveva puntato tutto per ottenere un’affermazione presso il grande pubblico. Una vicenda che ancora oggi nonostante il tempo trascorso, suscita interesse, dubbi e molte domande destinate a restare senza risposta, oltre al naturale dispiacere per la fine così drammatica di questo grande cantautore. Sono in molti a domandarsi "perchè", sono in tanti a restare ancora adesso smarriti per quella fine così tragica.

Il Festival rappresentava l’antitesi assoluta dei suoi principi, tesi piuttosto ad una ricerca artistica orientata verso la mediazione di ideali, sentimenti, aspirazioni e grandi speranze. Ma il passaggio sul palco del Casinò era diventato quasi obbligato per la sua carriera, non solo per le pressioni dei discografici che volevano farlo diventare un personaggio popolare e quindi vendibile sul mercato (vedi la scelta della affermata e internazionale Dalida come partner nella esecuzione e relativo paparazzato flirt), ma anche per una sua scelta maturata seppur tra mille dubbi e perplessità, che intravedeva in quella partecipazione un riconoscimento definitivo delle sue qualità.

Anticonformista e anticonvenzionale, con una personalità fragile ed inquieta, dotato di una voce aspra e profonda venata da quella malinconia che contraddistingueva il suo modo di essere artista, il mancato ingegnere Luigi Tenco avviato alla musica dalla passione per il pianoforte e il sassofono, era un personaggio in anticipo sui tempi, tra i primi a dissacrare la rima cuore-amore (“Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare” 1962), che cantava in modo struggente i sentimenti (“Angela”, “Lontano lontano”) e la disperazione esistenziale (“Vedrai vedrai”, “Un giorno dopo l’altro”).

A ventinove anni, con alle spalle una delle più importanti etichette italiane, la RCA, andava a Sanremo dunque per la sua consacrazione. Non a caso alla vigilia del festival, il suo ottimismo era palpabile, come si avverte da una delle ultime interviste rilasciata al settimanale “Sorrisi e Canzoni”: “Il pubblico mostra un interesse nuovo per quella linea melodica che si allaccia al folklore. Il problema è quindi quello di inserire, nel mondo sonoro di oggi, canzoni che si ispirano ad antiche melodie. Il campo è così vasto che ogni cantante può attingervi secondo la propria vena, mantenendo intatta la propria personalità”.

Un entusiasmo da idealista e appassionato della sua musica, tipico di chi come lui nonostante una naturale predisposizione a situazioni crepuscolari era convinto che un giorno “il mondo cambierà”, e che ben presto però si sarebbe scontrato con la mercificazione dell’arte così come la intendeva lui e ovviamente con le esigenze commerciali dell’industria discografica elevate alla massima potenza nella kermesse festivaliera.

E “Ciao amore, ciao”, ultimo brano della sua produzione, è proprio la rappresentazione di questo travaglio artistico che Tenco aveva avuto negli ultimi tempi della sua vita prima di quella drammatica notte del 26 gennaio del 67, un cambiamento da autore sensibile e al tempo stesso insoddisfatto, alla ricerca della canzone che doveva aprire una nuova strada nella musica leggera italiana. Una canzone popolare nel vero senso del termine e non solo di protesta.

La sua attenzione e creatività era infatti indirizzata non più e non solo su componimenti dedicati all'amore, ma sui problemi sociali e politici di una Italia che sembrava aver ottenuto la sua stabilità e il suo benessere economico tendendo però a rimuovere ingiustizie palesi e difficoltà nel quotidiano tramite la spensieratezza delle canzonette dei juke box.

In questo contesto “Ciao amore, ciao” è la canzone più sofferta di Tenco. E non tanto perché ha accompagnato il suo tragico epilogo ma per come è arrivata al festival, cioè alla versione definitiva che tutti conoscono, attraverso alcuni stati evolutivi del testo.

Il titolo originale infatti era “Li vidi tornare”, e si riferiva ad un brano dai sapori antimilitaristi come si sarebbe detto all’epoca, che raccontava il sogno di un bambino che immagina di vedere tornare a casa i soldati morti in guerra. Parole semplici ma profonde e che fanno riflettere, fra le quali c’era una citazione da “La spigolatrice di Sapri” del poeta Luigi Mercatini:

Li vidi passare
vicino al mio campo
ero un ragazzino
stavo lì a giocare
Erano trecento
erano giovani e forti
andavano al fronte


col sole negli occhi
E cantavano cantavano
tutti in coro
ciao amore ciao amore
ciao amore ciao… 


Il tema della guerra poi venne abbandonato a favore di un riferimento più attuale e diretto per il nostro paese quale poteva essere quello delle migrazioni interne e i relativi cambiamenti che si determinavano nella vita di chi lasciava la sua terra per tentare una nuova vita nella città e soprattutto nella modernità.

Il testo definitivo che venne composto dopo una cena al ristorante Antico Falcone di Roma sul retro di un menù e vari tovaglioli, parla infatti di un contadino che, stanco della vita di campagna e del lavoro nei campi soggetto alla variabilità delle condizioni atmosferiche (“guardare ogni giorno, se piove o c’è il sole”), si decide a partire per la città (“andare via lontano a cercare un altro mondo”), alla ricerca di nuove esperienze e opportunità (“dire addio al cortile, andandosene sognando”).

Quel cambiamento tanto agognato, genera però addii alle persone amate e un profondo smarrimento davanti alla realtà metropolitana che disconosce valori e tradizioni consolidate (“in un mondo di luci, sentirsi nessuno” ed ancora “saltare cent’anni in un giorno solo, dai carri dei campi, agli aerei nel cielo”).

Tanto che si arriva a pentirsi della decisione presa (“e non capirci niente e aver voglia di tornare da te”), perché sopraffatti dallo spaesamento che si prova in un ambiente che non ti appartiene e che tutto sommato ti emargina. Un disagio quasi premonitore di quello che Tenco proverà sul palcoscenico al momento della sua sofferta interpretazione, davanti al pubblico presente nel salone delle feste del Casinò e quello del piccolo schermo.

Il brano fu infatti eseguito da Tenco e da Dalida in occasione della prima serata del 17° Festival di Sanremo, che si svolse il 26 gennaio 1967. Poco prima di salire sul palco, Tenco disse al conduttore della manifestazione Mike Bongiorno “Questa è l’ultima volta”, “che canti un brano folk” rispose il presentatore, “no con tutto” la precisazione del cantante che riconsiderata a posteriori rivela un disagio forte e inquietante dell’artista per la situazione che stava vivendo.

L'esibizione eccessivamente sotto tono di “Ciao amore, ciao” da parte del cantautore, fu condizionata, si disse, dall'assunzione di barbiturici ed alcol, tanto che lo stesso maestro Giampiero Reverberi fece fatica a seguirlo. Altri sostennero invece che l’esecuzione fu volutamente lenta in polemica con la versione della cantante francese che ne aveva fatto a giudizio di Tenco una "marcetta". Al termine di tutte le esibizioni di quella serata, “Ciao amore, ciao” aveva ottenuto solamente 38 preferenze su 900, risultando dodicesima su sedici brani in gara e fu quindi, per il momento, eliminata.

L'ultima speranza era affidata alla Commissione di ripescaggio, composta dall’organizzatore Gianni Ravera, dai giornalisti Rai Ugo Zatterin e Lello Bersani e dal regista televisivo Lino Procacci, che preferì recuperare, nonostante l’opposizione del giornalista Lello Bersani che poi si dimise, “La rivoluzione” interpretata da Gianni Pettenati e Gene Pitney.

L'eliminazione di “Ciao, amore ciao” fu comunicata al cantautore mentre stava dormendo su un tavolo da biliardo. Alla notizia Tenco ebbe uno scatto d’ira e se la prese con Marcello Minerbi del gruppo Los Marcellos Ferial, imputandogli di essere stato colui che l'aveva introdotto nel mondo della musica. Poi calmatosi grazie alle parole di Dalida, bevve qualcosa con lei, il suo ex marito e produttore Lucien Morisse e il reporter Renato Casari che gli scattò alcune foto e si ritirò nella sua
stanza per sempre.

Quello che sia successo prima del ritrovamento del suo cadavere alle 2 e 10 del 27 gennaio da parte di Dalida e Lucio Dalla (lei in lacrime e con le mani sporche di sangue per aver abbracciato il suo corpo esanime sul pavimento, lui sconvolto con indosso un pellicciotto perché svegliato dal trambusto e senza pigiama), da una certezza assoluta, è diventato nel tempo uno dei misteri d’Italia, al di là delle indagini, anche recenti, della magistratura che hanno confermato il suicidio dell’artista.

Resta sicuramente il dolore e lo stupore per la sua morte che comunque non fermò il festival e che venne archiviata in fretta dagli inquirenti mentre il circo di Sanremo andava avanti col matrimonio di Pitney, i flash impazziti e la passerella dei divi della canzone. Per cercare di capire quella tragedia ci viene incontro quello che scrisse il premio Nobel Salvatore Quasimodo qualche giorno dopo in un puntuale e illuminante articolo pubblicato su il settimanale “Tempo” la cui attualità per certi meccanismi tuttora in vigore, è peraltro impressionante:

“I cantanti, i divi, sono esseri viventi e non prodotti da lanciare sul mercato e da gettare via quando i gusti dei consumatori reclamano una nuova etichetta. Così avviene nel mondo dello spettacolo e soprattutto oggi in quello dell’industria discografica che va forte, a giri di miliardi. Chi è furbo capisce che le qualità sono difetti agli occhi del pubblico e che solo ciò che è generico e non agita le opinioni dei benpensanti va bene, è lecito.

“I capelloni, i beat, i folk e i canti di protesta sono accolti purché non superino l’avanguardia rivoluzionaria della Vispa Teresa. Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio. La sua ribellione che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato contro il muro dell’ottusità. Chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte”.

 

La rivincita del "cameriere" Chinaglia

di FRANCESCO TRONCARELLI Inghilterra - Italia non è mai stata una partita come tutte le altre, soprattutto per noi, perchè giocare contro i...