lunedì 27 gennaio 2025

Luigi Tenco, l'ultima notte

di FRANCESCO TRONCARELLI

 

Il 27 gennaio del 1967, la parabola umana e artistica di Luigi Tenco si chiudeva tragicamente nella stanza 219 dell’hotel Savoy di Sanremo, dopo aver cantato per l’ultima volta la canzone su cui aveva puntato tutto per ottenere un’affermazione presso il grande pubblico. Una vicenda che ancora oggi nonostante il tempo trascorso, suscita interesse, dubbi e molte domande destinate a restare senza risposta, oltre al naturale dispiacere per la fine così drammatica di questo grande cantautore. Sono in molti a domandarsi "perchè", sono in tanti a restare ancora adesso smarriti per quella fine così tragica.

Il Festival rappresentava l’antitesi assoluta dei suoi principi, tesi piuttosto ad una ricerca artistica orientata verso la mediazione di ideali, sentimenti, aspirazioni e grandi speranze. Ma il passaggio sul palco del Casinò era diventato quasi obbligato per la sua carriera, non solo per le pressioni dei discografici che volevano farlo diventare un personaggio popolare e quindi vendibile sul mercato (vedi la scelta della affermata e internazionale Dalida come partner nella esecuzione e relativo paparazzato flirt), ma anche per una sua scelta maturata seppur tra mille dubbi e perplessità, che intravedeva in quella partecipazione un riconoscimento definitivo delle sue qualità.

Anticonformista e anticonvenzionale, con una personalità fragile ed inquieta, dotato di una voce aspra e profonda venata da quella malinconia che contraddistingueva il suo modo di essere artista, il mancato ingegnere Luigi Tenco avviato alla musica dalla passione per il pianoforte e il sassofono, era un personaggio in anticipo sui tempi, tra i primi a dissacrare la rima cuore-amore (“Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare” 1962), che cantava in modo struggente i sentimenti (“Angela”, “Lontano lontano”) e la disperazione esistenziale (“Vedrai vedrai”, “Un giorno dopo l’altro”).

A ventinove anni, con alle spalle una delle più importanti etichette italiane, la RCA, andava a Sanremo dunque per la sua consacrazione. Non a caso alla vigilia del festival, il suo ottimismo era palpabile, come si avverte da una delle ultime interviste rilasciata al settimanale “Sorrisi e Canzoni”: “Il pubblico mostra un interesse nuovo per quella linea melodica che si allaccia al folklore. Il problema è quindi quello di inserire, nel mondo sonoro di oggi, canzoni che si ispirano ad antiche melodie. Il campo è così vasto che ogni cantante può attingervi secondo la propria vena, mantenendo intatta la propria personalità”.

Un entusiasmo da idealista e appassionato della sua musica, tipico di chi come lui nonostante una naturale predisposizione a situazioni crepuscolari era convinto che un giorno “il mondo cambierà”, e che ben presto però si sarebbe scontrato con la mercificazione dell’arte così come la intendeva lui e ovviamente con le esigenze commerciali dell’industria discografica elevate alla massima potenza nella kermesse festivaliera.

E “Ciao amore, ciao”, ultimo brano della sua produzione, è proprio la rappresentazione di questo travaglio artistico che Tenco aveva avuto negli ultimi tempi della sua vita prima di quella drammatica notte del 26 gennaio del 67, un cambiamento da autore sensibile e al tempo stesso insoddisfatto, alla ricerca della canzone che doveva aprire una nuova strada nella musica leggera italiana. Una canzone popolare nel vero senso del termine e non solo di protesta.

La sua attenzione e creatività era infatti indirizzata non più e non solo su componimenti dedicati all'amore, ma sui problemi sociali e politici di una Italia che sembrava aver ottenuto la sua stabilità e il suo benessere economico tendendo però a rimuovere ingiustizie palesi e difficoltà nel quotidiano tramite la spensieratezza delle canzonette dei juke box.

In questo contesto “Ciao amore, ciao” è la canzone più sofferta di Tenco. E non tanto perché ha accompagnato il suo tragico epilogo ma per come è arrivata al festival, cioè alla versione definitiva che tutti conoscono, attraverso alcuni stati evolutivi del testo.

Il titolo originale infatti era “Li vidi tornare”, e si riferiva ad un brano dai sapori antimilitaristi come si sarebbe detto all’epoca, che raccontava il sogno di un bambino che immagina di vedere tornare a casa i soldati morti in guerra. Parole semplici ma profonde e che fanno riflettere, fra le quali c’era una citazione da “La spigolatrice di Sapri” del poeta Luigi Mercatini:

Li vidi passare
vicino al mio campo
ero un ragazzino
stavo lì a giocare
Erano trecento
erano giovani e forti
andavano al fronte


col sole negli occhi
E cantavano cantavano
tutti in coro
ciao amore ciao amore
ciao amore ciao… 


Il tema della guerra poi venne abbandonato a favore di un riferimento più attuale e diretto per il nostro paese quale poteva essere quello delle migrazioni interne e i relativi cambiamenti che si determinavano nella vita di chi lasciava la sua terra per tentare una nuova vita nella città e soprattutto nella modernità.

Il testo definitivo che venne composto dopo una cena al ristorante Antico Falcone di Roma sul retro di un menù e vari tovaglioli, parla infatti di un contadino che, stanco della vita di campagna e del lavoro nei campi soggetto alla variabilità delle condizioni atmosferiche (“guardare ogni giorno, se piove o c’è il sole”), si decide a partire per la città (“andare via lontano a cercare un altro mondo”), alla ricerca di nuove esperienze e opportunità (“dire addio al cortile, andandosene sognando”).

Quel cambiamento tanto agognato, genera però addii alle persone amate e un profondo smarrimento davanti alla realtà metropolitana che disconosce valori e tradizioni consolidate (“in un mondo di luci, sentirsi nessuno” ed ancora “saltare cent’anni in un giorno solo, dai carri dei campi, agli aerei nel cielo”).

Tanto che si arriva a pentirsi della decisione presa (“e non capirci niente e aver voglia di tornare da te”), perché sopraffatti dallo spaesamento che si prova in un ambiente che non ti appartiene e che tutto sommato ti emargina. Un disagio quasi premonitore di quello che Tenco proverà sul palcoscenico al momento della sua sofferta interpretazione, davanti al pubblico presente nel salone delle feste del Casinò e quello del piccolo schermo.

Il brano fu infatti eseguito da Tenco e da Dalida in occasione della prima serata del 17° Festival di Sanremo, che si svolse il 26 gennaio 1967. Poco prima di salire sul palco, Tenco disse al conduttore della manifestazione Mike Bongiorno “Questa è l’ultima volta”, “che canti un brano folk” rispose il presentatore, “no con tutto” la precisazione del cantante che riconsiderata a posteriori rivela un disagio forte e inquietante dell’artista per la situazione che stava vivendo.

L'esibizione eccessivamente sotto tono di “Ciao amore, ciao” da parte del cantautore, fu condizionata, si disse, dall'assunzione di barbiturici ed alcol, tanto che lo stesso maestro Giampiero Reverberi fece fatica a seguirlo. Altri sostennero invece che l’esecuzione fu volutamente lenta in polemica con la versione della cantante francese che ne aveva fatto a giudizio di Tenco una "marcetta". Al termine di tutte le esibizioni di quella serata, “Ciao amore, ciao” aveva ottenuto solamente 38 preferenze su 900, risultando dodicesima su sedici brani in gara e fu quindi, per il momento, eliminata.

L'ultima speranza era affidata alla Commissione di ripescaggio, composta dall’organizzatore Gianni Ravera, dai giornalisti Rai Ugo Zatterin e Lello Bersani e dal regista televisivo Lino Procacci, che preferì recuperare, nonostante l’opposizione del giornalista Lello Bersani che poi si dimise, “La rivoluzione” interpretata da Gianni Pettenati e Gene Pitney.

L'eliminazione di “Ciao, amore ciao” fu comunicata al cantautore mentre stava dormendo su un tavolo da biliardo. Alla notizia Tenco ebbe uno scatto d’ira e se la prese con Marcello Minerbi del gruppo Los Marcellos Ferial, imputandogli di essere stato colui che l'aveva introdotto nel mondo della musica. Poi calmatosi grazie alle parole di Dalida, bevve qualcosa con lei, il suo ex marito e produttore Lucien Morisse e il reporter Renato Casari che gli scattò alcune foto e si ritirò nella sua
stanza per sempre.

Quello che sia successo prima del ritrovamento del suo cadavere alle 2 e 10 del 27 gennaio da parte di Dalida e Lucio Dalla (lei in lacrime e con le mani sporche di sangue per aver abbracciato il suo corpo esanime sul pavimento, lui sconvolto con indosso un pellicciotto perché svegliato dal trambusto e senza pigiama), da una certezza assoluta, è diventato nel tempo uno dei misteri d’Italia, al di là delle indagini, anche recenti, della magistratura che hanno confermato il suicidio dell’artista.

Resta sicuramente il dolore e lo stupore per la sua morte che comunque non fermò il festival e che venne archiviata in fretta dagli inquirenti mentre il circo di Sanremo andava avanti col matrimonio di Pitney, i flash impazziti e la passerella dei divi della canzone. Per cercare di capire quella tragedia ci viene incontro quello che scrisse il premio Nobel Salvatore Quasimodo qualche giorno dopo in un puntuale e illuminante articolo pubblicato su il settimanale “Tempo” la cui attualità per certi meccanismi tuttora in vigore, è peraltro impressionante:

“I cantanti, i divi, sono esseri viventi e non prodotti da lanciare sul mercato e da gettare via quando i gusti dei consumatori reclamano una nuova etichetta. Così avviene nel mondo dello spettacolo e soprattutto oggi in quello dell’industria discografica che va forte, a giri di miliardi. Chi è furbo capisce che le qualità sono difetti agli occhi del pubblico e che solo ciò che è generico e non agita le opinioni dei benpensanti va bene, è lecito.

“I capelloni, i beat, i folk e i canti di protesta sono accolti purché non superino l’avanguardia rivoluzionaria della Vispa Teresa. Luigi Tenco ha voluto colpire a sangue il sonno mentale dell’italiano medio. La sua ribellione che coincideva con una situazione personale di uomo arrivato alla resa dei conti con la carriera, ha però ancora una volta urtato contro il muro dell’ottusità. Chi non è in grado di domandare un minimo di intelligenza a una canzone non può certo capire una morte”.

 

sabato 4 gennaio 2025

Dieci anni senza Pino Daniele

 di FRANCESCO TRONCARELLI 

Dieci anni fa se ne andava improvvisamente Pino Daniele, artista di razza che ha saputo coniugare grande musica ad una scrittura di qualità, verace come la sua terra e profonda come la sua natura. E’ stato uno dei massimi esponenti di una rivoluzione musicale napoletana che nello stile compositivo e nella strumentazione si alimentava di Africa, Oriente, Sudamerica, bleus e jazz e in quei testi particolari fra il napoletano e l’inglese era capace di evocare la grande varietà di umori, atmosfere e palpiti di una Napoli che nessuno aveva colto prima.

La sua carriera è stata ricca di successi e apprezzamenti, quarant’anni di sound irresistibile nel corso dei quali ha saputo regalare emozioni a non finire. Quarant’anni di attività appassionata e spassionata che ha generato una produzione di alto livello, in cui Pino Daniele è stato sinonimo di Napoli in musica ovunque si sia esibito.

Quella Napoli colta, sempre alla ricerca di un ponte tra la ricchezza sonora della città e il mondo di fuori, fino a pescare nel blues e nel jazz tinte e atmosfere determinanti per la sua musica. Ma anche quella più decisamente popolare, con brani che hanno aggiunto colore e cuore alla sua terra e che fanno ormai parte del patrimonio comune.

Insieme a Troisi di cui era grande amico (aveva curato la colonna sonora dei suoi primi film: Ricomincio da tre, Le vie del Signore sono infinite, Pensavo che fosse amore…), aveva rappresentato negli anni Ottanta la rinascita artistica di una città spesso considerata solo centro del malaffare e che invece è sempre stata punto di riferimento di una cultura profonda e dai contenuti importanti.

Era stato infatti il catalizzatore con il grande sassofonista James Senese nel gruppo “Napoli Centrale” di quel sound partenopeo che aveva risvegliato la città dai ritmi lenti del tran tran quotidiano indirizzandola verso stimoli creativi più effervescenti per le nuove generazioni.

Tante le collaborazioni con nomi illustri della scena internazionale come ad esempio Eric Clapton, Gino Vannelli, Chick Corea e ovviamente con tutti i nostri big, da Vasco a Ligabue, da De Gregori a Pausini, momenti irripetibili di grande musica rimasti nell'immagiario collettivo.

Lontano dai giri che contano e dal gossip mediatico, dopo un periodo di pausa creativa in cui aveva preferito le session con gli amici e lo studio di nuove sonorità, aveva riassaporato il gusto dei concerti nei grandi spazi a contatto col pubblico, lui che era stato uno dei precursori di questo tipi di esibizione, un ritorno alle origini prima di morire.

Aveva così recuperato gli amici con cui aveva diviso l’epoca giovanile (Senese, De Picopo, Zurzolo, Elisabetta Serio), guardando con sempre maggiore attenzione alla chitarra, strumento di cui era cultore e ottimo esecutore ed era ripartito da dove aveva iniziato.

Col gioiello della sua produzione, quel “Nero a metà” (terzo album della sua discografia) che lo aveva imposto come un grande musicista rappresentandone al meglio l’originalità della sua proposta e della sua estetica con pezzi come “A me me piace o blues”, “Quanno chiove”, “ Nun me scoccià” e che aveva riproposto in una nuova versione.

Alla soglia dei 60 anni che avrebbe compiuto a marzo del 2015, quella scomparsa improvvisa e inaspettata dopo l'esibizione alla diretta per il capodanno della Rai da Courmayer, che lo fece uscire dalle scene proprio mentre il suo pubblico riassaporava il gusto della sua musica così mediterranea e così moderna che aveva accompagnato stagioni della vita di tutti. Una musica che resta per testimoniare per sempre la bravura e la classe di un autore di grande talento che all’apparire aveva sempre preferito l’essere, artista.

Ecco perché anche se sono passati dieci anni dalla sua scomparsa, si sente fortemente la mancanza di Pino Daniele, perché è stato una artista vero che ha dato tutto sé stesso sempre, senza risparmiarsi. E la sua città lo ricorda in questo anniversario attraverso omaggi con concerti, incontri, flash mob e programmazioni radiofoniche no stop che seguono il lancio a novembre del suo inedito "Again".

E anche noi lo vogliamo ricordare con un suo brano, uno di quelli che più lo rappresenta e che nonostante siano passati più di quarant’anni dalla pubblicazione, sembra sempre attuale: “Napule è”. Un pezzo che Daniele scrisse quando aveva 18 anni e che fu inserito nella raccolta “Terra mia” pubblicata nel '77, suo debutto da solista dopo l’esaltante esperienza con il gruppo Napoli Centrale.

E’ un brano stupendo, indimenticabile ed emozionante, dove il suono tremolante della chitarra e un avvolgente tappeto d’archi accompagnano una dopo l’altra le immagini di una terra che l’autore ama in modo viscerale. Pure con il degrado in perenne agguato, la perdita di tanti valori e la povertà dei vicoli infatti, Napoli è sempre piena di mille colori, inebriata dall'odore del mare e luogo ideale per vincere la solitudine. Come dire, malinconia, sentimento, poesia, musica, Pino Daniele. 


La rivincita del "cameriere" Chinaglia

di FRANCESCO TRONCARELLI Inghilterra - Italia non è mai stata una partita come tutte le altre, soprattutto per noi, perchè giocare contro i...